La rubrica dell’avvocato
La rubrica dell’avvocatoa cura dell’ Avv. Claudio Calvello
(Patrocinante in Cassazione – DPO e membro di Federprivacy)
Forse non tutti sanno che con l’espressione “revenge porn”, che tradotto letteralmente significa “vendetta porno” o “vendetta pornografica”, si indica quella odiosa pratica consistente nel vendicarsi di qualcuno (spesso l’ex partner) diffondendo materiale sessualmente connotato che lo ritrae. Ebbene, chi si comporta così, non solo si comporta male ma commette un vero e proprio reato così come previsto dall’art. 612 ter del codice penale. È questa una delle principali novità introdotte dal c.d. “Codice Rosso”. In pratica, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. Ed è sottoposto alla stessa pena chi (cd. secondi distributori), avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini e i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare il loro nocumento. È di tutta evidenza come il Legislatore, attraverso l’introduzione dell’art. 612-ter c.p., abbia voluto tutelare in primis la libertà di autodeterminazione della persona, nonchè l’onore, il decoro, la reputazione, la privacy, e l’“onore sessuale” della singola persona. L’obiettivo, infatti, di chi diffonde immagini così private di una persona (si badi che qui si tratta di immagini di video a contenuto sessualmente esplicito) è quello di distruggere la reputazione di cui quest’ultima gode. E bene ha fatto il Legislatore ad intervenire così tanto duramente poiché la cronaca ci ha già purtroppo consegnato casi di donne che a causa di questa sciagurata pratica (figlia anche del nostro tempo), si sono addirittura tolte la vita.
FIGLI MAGGIORENNI: i limiti al mantenimento
Ma i figli maggiorenni vanno mantenuti a vita sol perchè non ancora economicamente indipendenti? NO! Infatti, il Giudice, “può” (e non deve) disporre un assegno di mantenimento a favore del figlio “valutate le circostanze” del caso concreto eliminando così ogni automatismo. A chiarirlo è la sentenza n. 17183/2020 della Corte di Cassazione. Per esempio, il diritto al mantenimento non può prevalere sempre e comunque, essendo quanto meno di pari dignità, il diritto del genitore ad essere rispettato e non ridotto esclusivamente a svolgere la funzione di bancomat. In particolare, la sentenza della Cassazione ribalta quanto precedentemente statuito dai giudici di merito per i quali il figlio aveva ancora diritto ad ottenere il mantenimento da parte dei propri genitori essendo un insegnante precario, che concludeva meri contratti a tempo determinato, di fatto incapace di mantenersi da sé: onde mancando il comprovato raggiungimento di una effettiva e stabile indipendenza economica, il genitore sarebbe stato ulteriormente obbligato al suo mantenimento. Ma la sentenza sopra richiamata ha posto l’accento sul primo fondamentale dovere del figlio nei confronti dei genitori che è quello di rispettarli. È un dovere giuridico, posto dall’art. 315 bis c.c.. Ed invero, la Cassazione ha richiamato l’obbligo del figlio di “contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia, finché convive con essa”, ma non ha certamente escluso il dovere primario del figlio di rispettare il genitore. E tale rispetto chiaramente si accentua con l’avanzare dell’età dei genitori laddove essi necessitano di maggiori cure ed assistenza anzitutto morale. Tradotto significa che il figlio maggiorenne ma non ancora economicamente autosufficiente, prima di bussare alla porta del proprio genitore per pretendere denaro, dovrà avere almeno assolto i propri obblighi (prima fra tutti quello di rispettare i propri genitori), non osservati i quali non otterrà, giustamente, alcun assegno di mantenimento!