Vitali e Clini, specchi dei fantasmi di Napoli
Vitali e Clini, specchi dei fantasmi di Napoli
- Corriere del Mezzogiorno (Campania)
- Di Filippo La Porta
Difficile scrivere qualcosa di originale su Napoli, città sovrarappresentata in letteratura e nel cinema. Ma in Polvere per scarafaggi di Nando Vitali (Ad est dell’equatore) — discesa crudele e amorevole nelle viscere urbane — troverete Napoli insolitamente trasfigurata in «città del vento», dove «si cambia spesso opinione e partito» perché il vento agita le bandiere in ogni direzione ….
Non tanto libro di racconti quanto zibaldone composto da ventisette pezzi: micronarrazioni, frammenti autobiografici, annotazioni di diario, monologhi, album di fotografie, illuminazioni, invenzioni surreali. L’autore rivela la sua genealogia letteraria: non solo i Burroughs, O’Connor, Cortazar e Carraro dell’epigrafe ma soprattutto Domenico Rea, cui viene dedicato un racconto. E dire Rea significa dire Boccaccio — qui rievocato per la chiesa dove incontrò Fiammetta — riletto dal plebeo e fiabesco Basile. La materia di questi testi è sanguinante e infetta. Il mondo che viene rappresentato ha una luce torbida, «curvata», a tratti minacciosa, e ospita creature «storte», marchiate a fuoco da un dolore gratuito e insensato (a un certo punto c’è perfino chi intende chiederne conto a Dio stesso!). Mi permetto di aggiungere un altro grande modello, il maestro insuperato del racconto moderno, Cechov. Anche Rea, come Cechov, viene dal basso, e perciò non giudica mai, rappresenta crudamente (e accetta) le persone come sono, al contrario del moralismo a tratti aristocratico di Eduardo (e per Cechov di Tolstoj), che aspira a rigenerare l’umanità. Anche Vitali ha un punto di vista del «basso» — sprofondato nei crateri dei Campi Flegrei — e anzi intende fare del basso una risorsa (quasi una visione «aumentata» della realtà, attenta a coglierne le possibili opportunità), e racconta la ambiguità morale di un mondo in cui un uomo buono può diventare mostruoso («Mediterraneo»), e un padre travestito da Babbo Natale si incarica — con gli occhi iniettati di sangue — di spezzare l’incanto del figlio («Il giorno più brutto della mia vita»).
Il racconto più commovente è «Petronilla» dove un uomo con tre gambe, in un circo, si innamora di una donna, acrobata androgina. In molte di queste storie, che l’autore definisce ellittiche, si rasentano spesso i generi del noir, dell’horror e perfino della fantascienza. Ma devo confessare la mia preferenza ai pezzi di nonfiction, e in particolare a un reportage lirico sul pontile di Bagnoli, alla «Basilica di San Lorenzo», nel quale trovandosi da bambino nella chiesa omonima l’autore si identifica con il santo dei desideri, delle bugie e delle stelle comete ( e con lui sogna un mondo inverso, «dove i belli saranno perseguitati…»), e poi lo straziante «Quel muro invisibile», sulla stregata coincidenza tra la festosa caduta del muro di Berlino e la silenziosa morte della madre in ospedale («Non sono riuscito a parlarle. A dirle niente di importante che rendesse significante la mia presenza»). Vitali ci mostra la pena di vivere senza i piagnistei estetizzanti del folklore. Però ci avverte anche che solo se ci immergiamo nell’acqua limacciosa di un pozzo nero potremmo scorgere in alto la luna, mentre a Bagnoli il passaggio della inafferrabile Anna lascia pur sempre un profumo di oleandro e cioccolato. E soprattutto il suono della tromba dolente di Chet Baker allude a un’utopia della purezza che forse è riservata proprio ai deformi.
Se Vitali ritiene che «i fantasmi siamo noi», con lui potrebbe concordare Caudio Clini, medico e scrittore al suo terzo romanzo, Natura di Jo (Francisci), dove l’allucinazione rinvia — anche con l’aiuto di Leopardi — a conflitti psicologici. Il protagonista Enrico, adolescente napoletano disturbato, si laurea in Medicina a Bologna e poi torna nella sua città — apparentemente guarito — come professore di Medicina Legale. Qui gli appare di notte la misteriosa Jo, che emerge da antiche ferite non rimarginate. Il medico tra l’altro conduce una propria ricerca biologica su quelle particolari molecole che si attivano inspiegabilmente dopo un decesso. A ciò si aggiunga una vicenda parallela che ci porta nel cuore della criminalità organizzata. Clivi — non napoletano ma che nella città partenopea ha vissuto a lungo — costruisce una coerente macchina narrativa, in cui della vicenda camorristica non ci importa nulla ma che ha almeno due meriti. Fa emergere l’anima ctonia di Napoli, costruita su un labirinto tufaceo di grotte, cimiteri e necropoli, come già avevano fatto suggestivamente Moscato e Cappuccio, ma con un originale aggiunta «scientifica» sui paradossi della fisica quantistica. E poi, senza nulla concedere all’esoterico, svolge un teorema «illuministico» — puro Hitchcock — in cui il mistero evapora quando si scioglie, in una drammatica scena finale, il trauma che l’ha provocato.